Sino a qualche anno fa, le case cinesi erano viste con sufficienza dai marchi storici dell’industria automobilistiche. Quei tempi, però, sono finiti. Ora, infatti, i costruttori del Dragone non solo non copiano più i colleghi occidentali, ma rappresentano un interessante antagonista per quanto riguarda il know-how ingegneristico. E, con ogni probabilità, tra poco arriverà anche il momento di dire che non sono i sussidi generosi di Pechino a consentire loro di affermarsi, ma proprio il fatto di essere avanti alla concorrenza. A riconoscerlo è il numero uno di Ford, Jim Farley. Un giudizio che, peraltro, non arriva a caso, ma sull’onda del recente viaggio effettuato in Cina.
Jim Farley, CEO di Ford: i cinesi sono ormai davanti alle case occidentali
A rivelare il pensiero di Farley sull’automotive cinese è stato il Wall Street Journal. Secondo il giornale finanziario, il CEO di Ford lo avrebbe esternato a John Thornton, un membro del consiglio di amministrazione dell’Ovale Blu. Aggiungendo una postilla su cui dovrebbero riflettere in molti: le case del gigante orientale rappresentano una vera e propria minaccia esistenziale.
Parole che potrebbero essere collegate a quanto affermato da Donald Trump nel corso della sua campagna presidenziale, criticando il piano per la transizione energetica dell’amministrazione Biden. Il candidato repubblicano, infatti, aveva dichiarato che è del tutto assurdo pensare di contrastare i cinesi nell’elettrico. Affermando implicitamente la necessità di concentrare gli sforzi degli Stati Uniti sui veicoli a motore endotermico.
Un film già visto
Il numero uno di Ford, ha poi affermato di aver “già visto questo film”. Il riferimento è alla precedente ascesa di Toyota, Honda e altri costruttori giapponesi. Una crescita avvenuta a spese dei costruttori statunitensi negli anni ’80 del precedente secolo. Inoltre, Farley ha stabilito un’altra similitudine, quella tra la crescente influenza tra le case cinesi e il conseguimento di livelli sempre più elevati da parte di Hyundai e Kia, soprattutto nel settore dei veicoli elettrici.
Per non dover recriminare su eventuali sottovalutazioni, la casa statunitense ha quindi deciso di accettare la sfida. All’inizio del passato febbraio, proprio Farley ha annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro per lo sviluppo di una nuova piattaforma dedicata ai veicoli elettrici a prezzi accessibili. Ovvero la nicchia di mercato presidiata anche da Tesla, oltre che dai cinesi.
Cui si aggiunge il prossimo lancio della Puma full electric, che però difficilmente sarà commercializzata negli Stati Uniti. Il suo mercato di destinazione potrebbe essere quello europeo. Al tempo stesso, la Ford ha deciso di rinviare la completa elettrificazione entro il 2030. Un obiettivo ambizioso, ma forse troppo affrettato in considerazione dell’evoluzione in atto nel mercato dell’elettrico.
Al momento, la gamma di auto elettriche della casa di Detroit può contare su Mustang Mach-e, Explorer e Capri. Mentre il SUV a 7 posti inizialmente previsto per il 2027 non ne farà più parte, essendo stato cancellato lo scorso mese. Per quanto riguarda il discorso delle risorse, Ford sta tagliando la spesa per i veicoli elettrici del 10%. Inoltre è stata di nuovo posticipata la nuova generazione dell’F-150 elettrica, che era stata inizialmente previsto per il 2025. Dopo un primo rinvio al 2026, ora il suo lancio è ulteriormente slittato al 2027.
Ford conferma quanto già affermato da un rapporto di Bloomberg
Quanto trapelato dal quartier generale di Ford è in effetti molto interessante. Se le autorità politiche di UE, Stati Uniti e Canada si intestardiscono a pensare di poter proteggere il proprio automotive coi dazi, stanno sbagliando completamente.
L’ascesa delle auto elettriche di Pechino non è collegata ai sussidi statali, che sono fruiti anche dagli altri costruttori, ma alla capacità di fare sistema e all’innovazione. Se le auto cinesi fossero ancora quelle di qualche anno fa, probabilmente non le comprerebbe nessuno o quasi.
Al contrario sono riuscite a crescere sotto tutti gli aspetti e godono dell’appoggio del sistema Paese, che consente loro in particolare di disporre di componenti a basso costo. Una capacità che manca alla concorrenza e che è stata del resto indicata in un rapporto di Bloomberg dell’anno scorso, con tanto di cifre. Stando a quanto affermato da BNEF, infatti, varare un nuovo impianto per batterie in Germania o negli Stati Uniti comporta investimenti per 865 milioni di dollari, contro i 650 sufficienti in Cina.