Come si ricarica un’auto elettrica? Tutto quello che devi sapere

M Magarini
I cavi di ricarica sono un elemento imprescindibile per le auto elettriche: ecco le tipologie oggi in commercio e le loro peculiarità
Auto elettriche alla colonnina di ricarica

Ormai pure gli scettici se ne saranno fatti una ragione: le auto elettriche prenderanno sempre più piede nei prossimi anni. Anche se in Italia rappresentano una nicchia, le direttive dell’Unione Europea sono chiare, a maggior ragione perché i biocarburanti non hanno ricevuto fin qui alcuna deroga. Le perplessità dei conducenti vecchia scuola comunque non mancano, inerenti, in primis, alla ricarica di un’auto elettrica.

Se finora eseguire un pieno era una passeggiata, adesso il discorso è cambiato e di parecchio. Tra vocaboli come wallbox, mobile charger, PWM e CCS c’è da perdersi. Orientarsi in un lessico così tecnico può apparire complicato, ma è questione di prendervi abbastanza dimestichezza. Dopodiché, la strada sarà tutta in discesa. Basta tenere duro: con pazienza verrà naturale prendervi sufficiente familiarità. L’importante è avere fiducia ed essere realmente interessati ad acquisire le basi in materia.

Ricarica auto elettrica: la differenza tra chilowattora (kWh) e chilowatt (kW)

colonnine

Prima di scendere nei dettagli, crediamo sia essenziale dare una bella rispolverata ai concetti fondamentali. Difatti, se in tanti si sono già documentati in passato, diversi utenti hanno fin qui preferito rimandare ogni approfondimento. Magari perché spaventati all’idea, hanno posticipato il “momento della verità”. Evitando di lasciare qualcuno “a piedi”, di seguito ci occuperemo delle informazioni chiave, quelle da conoscere assolutamente per non perdersi nei paragrafi successivi.

Iniziamo dalle unità di misura, con la distinzione tra i chilowattora (indicati con il simbolo kWh) e i chilowatt (kW). Di primo acchito, sembra si equivalgano. In realtà, come spesso accade, le apparenze traggono in inganno e di molto! Difatti, sebbene orbitino nell’universo delle auto elettriche, fanno riferimento a voci ben diverse. Senza scendere in eccessivi tecnicismi (che li rimandiamo agli esperti, in possesso delle competenze adeguate ad affrontarli), nel caso di un veicolo il kilowattora è relativo all’energia immagazzinata della batteria, avente scopo analogo al classico serbatoio.

Sebbene un elettrauto si metterà di certo le mani nei capelli, per rendere l’idea possiamo accostare i kWh ai litri di benzina che entrano nel serbatoio delle vetture a combustione interna. Con l’aumentare dei kWh crescerà, quindi, pure la corrente contenibile dalla macchina e, pertanto, la capacità di percorrere più strada. È un aspetto essenziale, specie alla luce dei timori covati dalla comunità dei conducenti.

Che, a onor del vero, poggiano le basi perlopiù sulla suggestione, anziché su evidenze scientifiche. Difatti, se in passato le critiche potevano pur aver senso di esistere, oggi il timore di rimanere “appiedati” costituisce soprattutto frutto della scarsa conoscenza in proposito. Malgrado sia naturale avere un pizzico di paura per argomenti dove non ci si sente ferrati, sarebbe il caso guardare in faccia alla realtà, evitando di lasciarsi cogliere dal panico.

Consapevoli del forte interesse nutrito dalla potenziale clientela, le Case hanno destinato dei generosi investimenti alla risoluzione della criticità. Ciò è peraltro dipeso dalla scarsa diffusione delle infrastrutture di rifornimento, almeno in certi Paesi, tipo la nostra Italia. Il Governo Meloni ha confermato gli incentivi, ma il primo bando per le autostrade e le superstrade si è rivelato un buco nell’acqua.

I kilowatt interessano, appunto, le colonnine o i dispositivi di ricarica. Detto altrimenti, consiste nella potenza energetica erogata all’istante. Idee confuse? Proviamo a spiegarsi tramite un pratico esempio. Ipotizziamo di fermarci per un “pieno” a una colonnina avente 22 kWh di potenza: nell’arco di un’ora, il veicolo si ricaricherà di 22 kWh. Basta fare un piccolo calcolo matematico per arrivare alla conclusione che un accumulatore da 50 kWh tornerà al 100 per cento in oltre due ore.

Adesso sì, messe le basi abbiamo la possibilità di prendere in esame gli standard di ricarica delle auto elettriche. Fa fede la norma tecnica IEC 61851-1, recepita in Italia nel 2017, dove vengono delineate quattro differenti modalità di ricarica delle auto elettriche. Ciascuna ha delle peculiarità che la rendono riconoscibile e più o meno appetibile rispetto alle esigenze del singolo fruitore.

Ricarica auto elettrica: modo 1

Partiamo dal sistema più semplice, che, a onor del vero, si presta meno alle auto elettriche. Indicato con il nome di Modo 1, si tratta della metodologia classica, che prevede di collegare la spina nella rete Schuko, quella casalinga a 16 Ampere. Date le elevate capacità che contraddistinguono le batterie delle bev, consiste in una soluzione poco convincente. La massima potenza a cui può arrivare è di 7 kW: di certo, c’è di meglio in giro, ma può andar bene nel caso di scooter, motorini e bici. Sebbene sia eseguibile in un ambiente domestico, è appropriato giusto in un novero limitato di mezzi di trasporto.

Modo 2

Il Modo 2 assomiglia all’1, tolta un’importante prerogativa, che le permette di raggiungere dei livelli superiori, entro certi limiti. Fra la rete elettrica e il veicolo viene ovvero interposto il cosiddetto mobile charger o control box. In cosa consiste è presto detto: in un’unità di controllo, utile a erogare corrente mediante PWM. Acronimo di Pulse With Modulation, ha il pregio di assicurare un maggior grado di protezione nel processo di ricarica ed è per questo motivo che è l’unica ammessa dalla normativa comunitaria.

Si tratta giusto di collegare con il cavo ed è fatta. L’immediatezza di fruizione gioca a suo favore, così come il poco occorrente necessario a eseguire il “pieno”. Di norma, i produttori includono una presa Schuko, ma la forte domanda ha spinto pure all’arrivo sugli scaffali di adattatori da 32A.

A seconda della tipologia di impianto nella propria abitazione, è teoricamente capace di ricaricare fino a un massimo di 22 kilowatt, con la prese industriale trifase. Comunque, nemmeno qui siamo in presenza del sistema definitivo, capace di risolvere ogni problematica. Grazie ai notevoli passi in avanti compiuti nel settore, è possibile servirsi di strumenti maggiormente appropriati.

Modo 3

Ecco il “pezzo forte”, di interesse a chi ha una bev. In breve, il Modo 3 deve essere diviso in due tipologie, la Wall-Box e la colonnina. Premesso che a livello concettuale sono simili, il primo è installabile in un complesso domestico, anche in un condominio. Sulla carta si spinge fino ai 7,4 kilowatt di potenza in monofase o ai 22 kilowatt in trifase. Tuttavia, in Italia sono quasi introvabili degli impianti tanto performanti.

Per quanto riguarda la colonnina, con essa si intende un network messo a libera disposizione degli utenti. Per usufruirne, è sufficiente impiegare una card o un’app, effettuare il collegamento e il collegamento. La potenza massima in trifase è di 22 kW, ma poche auto elettriche lo contemplano, tendendo a fermarsi agli 11 kW. Il cavo non è di solito integrato, bensì lo si porta direttamente da casa, realizzati ad hoc da aziende specializzate, le c.d. Type 1 e Type 2.

Modo 4

Ed eccoci alla “fermata finale” di questo lungo viaggio. Diversamente del 3 (dov’è alternata), il Modo 4 prevede la corrente continua. Ne deriva un netto miglioramento sotto il piano della velocità, al punto che nel giro di mezz’ora le auto elettriche idonee passano dallo zero all’80 per cento di ricarica, con potenze fino a 350 kW.

Cambiano pure i connettori: quelli da utilizzare sono i CCS Combo2 (compatibile pure con il Modo 3) e il CHAdeMO (perlopiù da adoperare sui modelli di vecchia generazione). Insomma, la ricarica delle auto elettriche non è così complicata come si è talvolta portati a credere. Certo, all’inizio capita di sentirsi un po’ spiazzati a causa del particolare sistema adottato, poi, però, dopo avervi preso sufficiente dimestichezza, smetterà di mandarvi in crisi.

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